Obama Presidente.
Rallegramenti, ma non abbiamo già visto questo film?
Circola
ora un’euforia incontrastata, particolarmente qui in Italia, per le speranze
che Obama presidente significhi
un ritorno a politiche ‘illuminate’, qualcosa di più progressive, più di
sinistra addirittura, una ventata di luce dopo gli otto anni di tenebre
neoconservatrici in America e nel mondo. Questa
aspettativa eccitata si è diffusa a pioggia, e come al solito è divenuta dogma
acritico per una massa enorme di cittadini italiani di centrosinistra e
sinistra propria, con ogni sorta di congettura declamata entusiasticamente dai
soliti ‘informati’ commentatori di quell’area. Viva Obama,
il mondo cambierà, è il coro. Ma non abbiamo già visto
questo film?
Era il
1992, e il volto era quello fresco di Bill Clinton che ci annunciava l’uscita
da ben dodici anni di buio Repubblicano, e anche
allora registrammo l’esultanza di mezzo mondo. Ma che ne fu di
quelle speranze? Furono devastate dall’ex governatore
dell’Arkansas, la cui presidenza toccò punte persino di infamia, oltre a non
discostarsi se non cosmeticamente dal lavoro dei falchi di Reagan. Leggerete
più sotto.
Bisogna
rimanere calmi e tentare di essere obiettivi osservatori della Storia. Non
possiamo discostarci dal fatto che è stato eletto un presidente degli Stati
Uniti d’America, che è la potenza egemonica in guerra permanente-
una guerra spietata sui fronti militari, economici e diplomatici - per la
propria sopravvivenza come tale. Che è un Paese dove un centrosinistra, o
persino qualcosa di vagamente tale, non esiste. Gli Stati Uniti di oggi sono
retti al vertice dall’alternanza fra due forze di
destra conservatrice, che si differenziano per dettagli minori di politica
interna, e per dettagli evanescenti in politica estera. La retorica dei
proclami sui palchi è una cosa, la realtà di governo di una
simile macchina nel contesto del mondo moderno è un’altra.
Obama è un nero,
d’accordo, ma coi neri d’America, col loro colore,
stile di vita, linguaggio, e condizione sociale ha ben poco in comune. Innegabile
il primato di un nero alla Casa Bianca, ma guardiamo oltre, per favore. E la
prima cosa che si osserva è che un’attenta lettura del programma di Barack Obama lascia una sorta di vuoto mentale e nessuna idea precisa. Dalla Sanità alla
politica estera, dall’economia alla scuola, veniamo
trascinati attraverso una serie di proclami talmente generici da produrre un unico
possibile interrogativo: ma che significano in pratica? Soprattutto, a voler
essere un poco più precisi, dove sono le risposte del senatore Obama ai temi più cruciali della politica americana, ovvero ai temi più vergognosi della sua politica estera? E cioè:
lo strapotere delle lobby economiche e di quella ebraica nelle stanze che
contano a Washington, che il suo programma solo vagamente tratta; la politica
scellerata oltre che immorale sul Medioriente, all’insegna di un incredibile sistema di due pesi e due misure
nei rapporti con Israele/Emirati/ArabiaSaudita e a sfavore di chiunque altro; il
sostegno americano alla repressione in Colombia, che nel nome della lotta alla
droga sta assassinando la società civile attiva di quel Paese, e la rapina
storica che le multinazionali statunitensi pretenderebbero di perpetrare ancora
su milioni di campesinos in miseria, per giungere alla
continua interferenza americana negli affari interni di tutta l’America Latina;
la vergogna dell’embargo economico contro Cuba; il dramma dell’abbandono
sanitario di 44 milioni di cittadini statunitensi che invocano (assieme a
milioni di altri) un sistema sanitario nazionale gratuito basato sulla
tassazione pubblica, e non mezze misure dove al centro stanno comunque le
solite compagnie assicurative; il problema degli accordi di libero scambio
commerciale che stanno uccidendo masse di posti di lavoro negli USA mentre
creano posti di lavoro da schiavi nei Paesi aderenti (sempre Terzo Mondo); la
fine del balletto vergognoso del rispetto selettivo delle regole internazionali
che Washington adotta come politica standard da 50 anni, e cito le regole del
WTO, del NPT, della Biological Weapons
Convention ecc., e il rispetto delle sentenze delle corti internazionali come
la Corte Internazionale di Giustizia, o il Tribunale Criminale Internazionale,
o ancora il rispetto delle Convenzioni di Ginevra e dell’Habeas
Corpus; il ritiro della presenza militare americana dall’Iraq intesa come
‘ritiro’, e non la farsa del ritiro di truppe spicciole che lasciano però sul
terreno le più sofisticate basi militari americane al mondo; la Guerra al
Terrorismo, come mezzo per la disseminazione di quelle basi in posti chiave per
le risorse necessarie all’America; la fine delle leggi liberticide che
l’amministrazione Bush ha passato con la scusa della Guerra al Terrorismo; la
stagnazione degli stipendi medi americani da oltre 30 anni e la povertà a livelli
scandalosi per il Paese più ricco
del mondo, che non beneficeranno certo di qualche taglio alle tasse o donazione
per un gran totale di 50 miliardi di dollari, mentre il budget per la difesa
rimane di 700 miliardi di dollari l’anno; l’esplosione di una finanza
speculativa fuori controllo che tiene oggi tutto il Pianeta sotto la spada di
Damocle di 540 mila miliardi di dollari in prodotti derivati che fluttuano all’impazzata
e senza controlli, una bomba atomica sotto ogni letto di ogni cittadino del
mondo. E sono molti altri i temi pressanti su cui Obama
ha detto da troppo poco a sostanzialmente nulla.
La
terza, drammatica falla nel clima di euforia per
l’ascesa di Obama alla Casa Bianca è la gioia per il
ritorno a Washington della miglior tradizione dei ‘nuovi Democratici’, come se
la parola Democratici in sé fosse automaticamente sinonimo di qualcosa di
diverso dalla destra, di un vento fresco e rigeneratore per l’America e per il
mondo. Non lo è, e non lo è stata finora. Infatti, si può tranquillamente
asserire che le presidenze Democratiche del dopoguerra hanno rappresentato la
continuità dell’imperialismo all’estero e della ‘guerra ai poveri’ interna
propria dei Repubblicani. La spiegazione per la diffusa inconsapevolezza di quanto
ho appena affermato è duplice: da una parte la geniale
capacità dei più noti presidenti Democratici di ‘vendere’ all’opinione pubblica
le stesse porcherie della controparte (e peggio) con tale garbo da intontire i
più; in secondo luogo, la solita farsa dei grandi media compiacenti-silenti,
coi loro giornalisti asserviti.
Per mettere in
un solido contesto le mie affermazioni, è necessario rivedere (necessariamente
per sommissimi capi) l’intera menzogna del mito
Democratico americano come simbolo di progressismo e di giustizia, cominciando
proprio dal suo capostipite: quel volto ‘illuminato’ che rispondeva al nome di John
Fitzgerald Kennedy, per passare poi al suo successore Lyndon
B. Johnson e di seguito.
Fu sotto
le rispettive amministrazioni che fu dato il semaforo verde (per usare
un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del
Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart
i militari ripresero il potere nel Paese (1964) inaugurando la notoria stagione
dei National Security States,
che soffocherà nel sangue e nella camere di tortura gran parte dell’America
latina nelle decadi successive. Nei files segreti
dell’epoca, oggi desecretati a
disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche
parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del
Democratico Kennedy, che definì il golpe dei torturatori “una grande vittoria per il Mondo Libero” e “un punto di svolta per la Storia”. Prima ancora, Kennedy e i suoi
più stretti consiglieri Mc Namara, Gilpatric, Lemnitzer, non si
erano fatti scrupolo di lanciare una campagna di
terrorismo contro Cuba mirata alla sua popolazione civile, niente meno. In un
file segreto del Joint
Chiefs of Staff datato
13 marzo 1962, l’amministrazione Democratica fa uso specifico della parola
‘terrore’ come strumento da impiegare innanzi tutto contro i rifugiati cubani
in cerca di asilo politico negli Stati Uniti per poi incolpare Castro delle
conseguenti atrocità, con lo scopo finale di suscitare uno scandalo da prendere
a pretesto per un’invasione militare di Cuba: “La campagna di terrore sarebbe diretta contro i rifugiati cubani in
Florida o persino a Washington… potremmo affondare un vascello di rifugiati o
tentare di assassinarli qui negli States”,
recitano i documenti. Nell’operazione Mongoose si discusse se “minare
le acque cubane.... E’ stato detto che sono
disponibili mine americane non riconoscibili.... potremmo farle piazzare da
Cubani”. L’operazione Break up si
prefisse invece di “causare incidenti a navi, aerei o veicoli cubani usando sostanze
corrosive”. Tutto questo, come appare ovvio, in
violazione delle più elementari norme della legalità internazionale.
Lyndon Johnson non volle essere da meno, e poco dopo aver ricevuto
dal Congresso a maggioranza Democratica il via per la
sciagurata aggressione al Vietnam, gettò tutto l’appoggio della sua
amministrazione, aiuti militari inclusi, al genocidio dei contadini indonesiani
perpetrato dal generale Suharto a partire dal novembre
1965, che riempì le fosse comuni dell’arcipelago con più di un milione di
morti, forse due, non lo si saprà mai con certezza. I Democratici al potere
alla Casa Bianca erano determinati a impedire che i non allineati indonesiani
di sinistra portassero avanti “programmi
politici e sociali che erano contrari agli interessi di Washington”, come
si legge nei files desecretati,
e fu un massacro. I dispacci top secret che Johnson
ricevette allora fanno rabbrividire: telegramma A-527 da Jakarta, “La stima del bilancio dei
morti a Bali è di 80.000, le
stragi continuano e non se ne vede la fine”. E poi: “Francamente non sappiamo se il vero numero di morti
(in Indonesia) è di 100.000 o di
1.000.000… ma crediamo che sia meglio
stare sulla stima più bassa, specialmente nel rispondere alle domande della
stampa”. Telegramma riservato
1326 del 4 Novembre 1965: “E’ stato detto chiaramente che sia
l’ambasciata americana che il governo degli Stati Uniti condividono e ammirano
quello che l’esercito sta facendo”(sic).
Questa
'illuminata' tradizione del Democratic Party
sarà poi trasmessa ai loro futuri presidenti fino a oggi, includendo il Nobel
per la Pace Jimmy Carter. Carter fu a tutti gli
effetti il pioniere della improvvisa svolta religiosa conservatrice o
fondamentalista (a seconda dei casi) dei presidenti americani, inaugurando la
stagione della Bible Belt Politics, e cioè della politica di rincorsa dei voti delle
destre religiose estreme degli Stati americani del sud. Fu lui a comprendere
per primo il valore elettorale di un paio d’ore di
messa alla domenica, fotografi presenti of course. Questo democratico, oggi simbolo di
pace, autorizzerà a partire dal 1978 ingenti forniture d’armi al genocida Suharto nella sua nuova impresa contro l’isoletta di Timor
Est, a un prezzo di 250.000 vite di civili inermi, e con l’aiuto di Israele
nell’invio di jet militari in una triangolazione che doveva bypassare i veti
del Congresso medesimo, di fatto violando i principi più solenni della
democrazia rappresentativa americana.
Carter è anche
l’uomo che all’inizio del 1978 di fronte all’apogeo dell’olocausto cambogiano
per opera di Pol Pot e dei
suoi Khmer Rossi, decise il famoso ‘spostamento verso la Cina’ (The Tilt towards
China) che di Pol Pot
era il principale sponsor e armatore. Quando poi il Vietnam invase la Cambogia
ponendo fine all’incubo sanguinario dei Khmer Rossi (1979), il Democratico Carter diede ordine alla sua amministrazione di appoggiare
presso le Nazioni Unite la permanenza del “legittimo”
seggio del governo cambogiano cacciato dai vietnamiti, cioè di Pol Pot, incoraggiando le agenzie
umanitarie dell’ONU nell’aiuto ai sanguinari guerriglieri Khmer dispersi nella
foresta al confine con la Tailandia. Il consigliere per la sicurezza nazionale
di Carter, Zbigniew Brzezinski,
ammise più tardi il suo ruolo: “Ho
incoraggiato i cinesi a sostenere Pol Pot… Siccome Pol Pot era un abominio, noi non avremmo mai potuto aiutarlo,
ma la Cina sì”.
Brzezinski, sempre
sotto diretta influenza dell’amministrazione Democratica di Carter
e in tandem con il segretario alla difesa James Schelsinger,
lanciò l’addestramento dei muhajideen afghani in
funzione anti sovietica, ignorandone la forte componente islamica radicale,
quella che farà poi da culla per Al Qaida e Bin
Laden. A chi a quel tempo gli pose il problema (con non poca preveggenza) Brzezinski rispose: “ …
ma cosa volete che siano un mucchio musulmani agitati?”.
La sfilza di eminenti figure del Democratic Party americano che le sinistre o similsinistre italiane farebbero bene a non evocare continua
con quella Madeleine Albright che da ambasciatrice
statunitense all’ONU (successivamente Segretario di Stato di Clinton) descrisse
la morte di 350.000 bambini iracheni causata direttamente dalle sanzioni ONU
contro l’Iraq come un fatto tutto sommato accettabile. Accadde durante
un’intervista di Lesley Stahl,
reporter del celebre programma 60 Minutes
del network CBS, nell’ambito di un
approfondimento intitolato Punishing Saddam.
La Stahl ad un certo punto
chiese alla Albright: “Ci è giunta voce
che mezzo milione di bambini iracheni sono morti. Sono di più di quelli che
morirono a Hiroshima. Mi dica, ne è valsa la pena?” L’ambasciatrice guardò
la giornalista e rispose: “Penso che
questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena.”
Poi c’è
Bill Clinton, che merita un capitolo a sé. L’euforia che oggi percuote tanti in
Italia e in Europa nell’attesa di una nuova era Democratica e progressista made in Obama, copia fedelmente
quella vissuta nel 1992-3 quando i tre interminabili mandati Repubblicani di
Reagan e Bush padre finirono nel trionfo del giovane liberal
Bill Clinton. Anche allora, come oggi, milioni di
abitanti del pianeta si abbandonarono a fantasie entusiaste sulla nuova era dei
Lumi che ne sarebbe seguita.
Eccoli
i Lumi del 'progressista' Clinton: è stato il pioniere
della dottrina cosiddetta “Full Spectrum Dominance” (dominio
a tutto campo) elaborata dal Pentagono sotto la sua amministrazione, che è
stata la base materiale e ideologica di tutto ciò che i neocons
di Bush hanno potuto fare in questi anni di devastante unilateralismo armato. L’idea
che l’America avesse il diritto di esportare la propria supremazia in tutto il mondo, fu egregiamente illustrata dal
Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Clinton Anthony Lake con le seguenti
parole: “In un mondo in cui gli USA non devono più quotidianamente preoccuparsi
della minaccia atomica sovietica, la questione del dove e quando interverremo in
Paesi esteri è sempre più una nostra scelta”.
Ed è
sempre dal cilindro dell’affabile Bill che sono uscite due delle più sciagurate
iniziative rivolte al continente africano, il African Growth and Opportunity Act e il African Crisis Response Initiative (ACRI).
Nel primo è sancito il tentativo di incatenare sempre più Stati africani ai
cosiddetti accordi bilaterali di libero scambio, che
già hanno affamato e devastato ambientalmente una
sfilza di Paesi dell’Emisfero Occidentale (Centro America e Caraibi); il
secondo è un piano segreto di “programmi
di assistenza militare” (leggi vendita illegale di armamenti) a Stati
africani in miseria come il Niger, il Mali, il Chad,
l’Uganda, il Benin, il Senegal o il Malawi. L’uomo prescelto dal Democratico
Bill Clinton per gestire questi loschi affari si chiamava Nestor
Pino Marina, un colonnello esiliato cubano già arruolato nel
fallito golpe dello Sbarco della Baia dei Porci a Cuba del 1961, in
seguito agente speciale nelle ‘operazioni sporche’ dell’esercito americano in
Laos e Vietnam, e consigliere dei Contras nella loro guerra di terrore contro il Nicaragua nei
primi anni ’80 (che costò a Washington una condanna per ‘terrorismo’ da parte
della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel
1986).
E per
rimanere nell’America Latina, l’'illuminato' Clinton decise di aumentare
considerevolmente gli aiuti militari alla Colombia impegnata nella cosiddetta
‘guerra alla droga’, che altro non è se non un paravento per la repressione, la
tortura e l’assassinio di chi in quel Paese lotta per
la giustizia sociale e i diritti umani. Amnesty International ha più volte denunciato
le atrocità di Stato colombiane, testimoniando che in
realtà le forze armate addestrate dagli Stati Uniti collaborano con le squadre
della morte e con gli stessi narcotrafficanti in una campagna di terrore contro
sindacalisti, attivisti per i diritti umani, studenti di sinistra, e per
reprimere i contadini in rivolta contro i latifondisti.
La pratica del Democratico presidente Clinton e del suo partito di chiudere entrambi gli occhi
di fronte ai crimini più orrendi pur di esportare armi e influenza americane,
trovò forse la sua massima espressione nell’assistenza militare alla Turchia. In quel Paese, lungo tutti gli anni novanta si verificò una
campagna di repressione poliziesca delle minoranze curde del sudest che per la
ferocia e l’entità dei crimini commessi contro civili innocenti fu definita dal
Ministro turco per i Diritti Umani Azimet Koyluoglu “terrorismo di Stato”. Era la Turchia del
presidente Suleyman Demirel e del
premier Tansu Ciller, sotto la cui amministrazione le forze
speciali della Jandarma bruciarono 3.600 villaggi,
torturarono con metodi inauditi migliaia fra uomini donne e persino
adolescenti, uccisero, mutilarono e costrinsero alla fuga sulle montagne due
milioni di civili in miseria. Tutto documentato dalle maggiori organizzazioni
per i diritti umani, come al solito. Ebbene, Clinton
fu colui che nel solo 1997 decretò un aumento degli
aiuti militari a quell’esercito criminale di tale entità da superare tutte le
forniture americane precedenti dal 1950 ad allora.
Fu
sempre Clinton e la sua amministrazione Democratica a guidare l’attacco aereo
della NATO alla Yugoslavia nel 1999 per ‘salvare’ il
Kosovo dagli artigli serbi, con la piena partecipazione del nostro
centrosinistra, salvo poi sostituire agli artigli di Milosevic i propri (e i
nostri). Sono recenti le rivelazioni fatte in seno al Defence Select Committee
britannico dall’allora sottosegretario alla Difesa Lord Gilbert secondo cui negli accordi di pace di Rabouillet,
rigettati dal leader serbo, fu segretamente e appositamente inserita una
clausola chiamata Annex B che prevedeva l’occupazione militare
di tutta la Yugoslavia proprio per causare l’inevitabile rifiuto di Belgrado.
Questo perché il Kosovo, Paese immensamente ricco di
minerali, doveva divenire terra “ad
economia di Libero Mercato” dove era imprescindibile la rapida “privatizzazione di tutti i beni statali”
, secondo quanto recitano gli articoli 1 e 2 del capitolo 4 di Rambouillet, cosa che senza Milosevic sarebbe accaduta assai
più rapidamente. Ergo i bombardamenti e questo spiega
anche perché le forze aeree NATO sotto guida clintoniana
distrussero in Kosovo solo 14 carri armati serbi, ma colpirono ben 372 aree
industriali statali (nessuna privata o di proprietà straniera). Il più
formidabile blitz delle forze NATO in Kosovo si registrò al termine dei
bombardamenti quando 2.900 soldati invasero il complesso minerario di Trepca, valore di mercato di 5
miliardi di dollari, espellendone il management di Stato e i lavoratori. Uno
dei primi atti legislativi della nuova amministrazione ONU (Unmik)
fu di abolire la legge sulle privatizzazioni del 1997
per permettere la proprietà straniera al 70% di qualsiasi industria statale con
solo il 15% riservato ai lavoratori. A gestire il bottino di
guerra fu lasciata la Kosovo Trust Agency (KTA) che ha di fatto svenduto il Kosovo a
pezzetti ai migliori offerenti stranieri.
Ricordo,
di sfuggita, che Bill Clinton mantenne ben ferma la posizione degli Stati Uniti
come principali fautori delle sanzioni ONU contro l’Iraq di Saddam Hussein, che
con la piena consapevolezza dei Servizi segreti di Washington costarono la vita
ad almeno 350.000 bambini iracheni, e questo nonostante le proteste degli stessi
dirigenti ONU e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un olocausto di innocenti.
In ultimo, lo scandalo delle torture americane nella
prigione di Abu Ghraib in Iraq. Cosa c’entri in quell’orrore il
Partito Democratico statunitense è presto detto. Secondo le diverse inchieste
che seguirono lo scandalo (quella del US Army Inspector General, il Taguba Report, Amnesty International ecc.) gran parte della responsabilità per
quanto avvenne laggiù è da attribuirsi alla gestione degli interrogatori dei
sospetti terroristi arabi da parte del maggior gruppo privato di Intelligence
statunitense, il California Analysis Center Inc. (CACI), una delle tante aziende
militari private cui sempre più i governi americani appaltano veri e propri
compiti di guerra che una volta erano ad esclusivo appannaggio dell’esercito
nazionale. Questa tendenza, oltre a portare un elevatissimo malcontento fra i
soldati USA che vedono i loro omologhi privati fare il loro
stesso lavoro con metà della preparazione necessaria ma il triplo dello
stipendio, costituisce una vera emorragia di fondi pubblici a favore di gruppi
privati in una ridda di scandali, truffe e tangenti da far impallidire la
nostra Tangentopoli. Essa è figlia di una
mentalità neoliberista spinta, che vede nel restringimento delle
funzioni dei governi (small government,
in gergo) e in una deregulation selvaggia il toccasana per l’economia. E chi
furono gli artefici massimi di questa assai dubbia politica alla Casa Bianca? I
Democratici, quando il Democratic Leadership Council
approdò alla presidenza degli Stati Uniti nel 1992-3 con Bill Clinton e Al
Gore. Quest’ultimo in particolare (Nobel per la Pace, sic) diede il via a una
privatizzazione della Difesa a rotta di collo, che però non fu regolata (e
ancora non lo è) dalle leggi del Libero Mercato, come
si potrebbe pensare, ma sovente secondo la regola dei contratti No-bid Cost-plus,
dove l’appalto è assegnato dall’alto e senza gara, mentre i costi sono
rimborsati alla ditta prescelta semplicemente in base alle sue dichiarazioni di
spesa, e senza che alcuna Authority statale possa controllare alcunché. I fondi
così sperperati da Washington hanno raggiunto le decine di
miliardi di dollari di denaro pubblico nella sola guerra in Iraq, uno scandalo
che come si è visto non deve le sue origini ai falchi neocons di George W. Bush, ma ai
‘progressisti’ eredi di JFK. “Hanno creato un sistrema stalinista per remunerare i loro vassalli… questo
è un manicomio alla deriva”, è stato il commento di Robert Greenwald, autore di Iraq
For Sale: The War Profiteers,
nella sua testimonianza presso il House Appropriation
Committee del Congresso americano pochi mesi fa.
Barack Obama sarà chiamato a un duro test nei rapporti fra Stati
Uniti e Cina, non ultimo perché il Paese asiatico è, insieme, un mercato immenso
che fa appetito a chiunque e un investitore
formidabile che si sta ‘comprando’ grandi fette del debito americano pur
rimanendo sulla carta una dittatura comunista. Ci auguriamo che Obama non segua le orme del celebrato Democratico Clinton,
che decise di scavalcare ogni remora morale e l’embargo deciso dal Congresso (e
la pila di cadaveri di Tien an men) per vendere a Pechino
addirittura componenti nucleari, per la gioia dell’americana General Electric. Fu poi il
segretario di Stato di Clinton, Warren Christopher, che si prodigò per
recapitare in Cina anche due tipi di satelliti
militari, scatenando di nuovo le ire del Congresso, il quale era stato da tempo
informato della spiacevole abitudine cinese di rivendere quella tecnologia a
Paesi come il Pakistan, la Korea del Nord o l’Iran.
Il (non
esistente) senso morale della presidenza di Bill Clinton nei suoi rapporti
commerciali col mondo, fu egregiamente espresso dal suo ministro del Tesoro
Lloyd Bentsen che, notoriamente e pubblicamente,
disse: “Sono stufo di giocare alla pari. Dobbiamo truccare il gioco a
favore delle nostre industrie, lo dovevamo fare 20
anni fa…”.
E non si creda che il ‘falco’ Clinton in politica estera si sia comportato da
‘colomba’ negli affari interni. Egli ereditò dal Democratico Jimmy Carter una
politica economica interna che solo nei proclami risultava
innovativa (Obama prenda nota) ma che nella pratica
era una variante edulcorata del peggior neoliberismo Repubblicano. Al punto che
gli indicatori economici dell’era Clinton crollarono ai livelli degli anni ’50,
come testimoniò uno studio della Fordham
University che appiccicò all’era clintoniana
l’etichetta di “recessione sociale”. Io stesso percorsi in lungo e in largo gli
USA al termine del secondo mandato Clinton, dove trovai
situazioni di degrado sociale spaventose: il record di senza fissa dimora nello
Stato della California, gente si badi bene pienamente occupata ma che la logica
speculativa ed elitaria dei clintonomics (le teorie
economiche del presidente) aveva resto a tutti gli effetti dei poveri. A Palo
Alto scovai persino una linea autobus che fungeva, la notte, come dormitorio
ambulante; a Pittsbourg mi imbattei
in un immenso corteo di manifestanti, tutti anziani sopra i 70 alcuni dei quali
sfilavano con i trespoli delle flebo, per dire che la loro vita era una continua
scelta fra la cena o l’acquisto dei farmaci prescritti dal medico di base;
intere cittadine del mid-west abbandonate,
letteralmente, come si vede nei film western, con la vegetazione che cresceva
contro le porte e le serrande dei negozi, e gli abitanti emigrati a cercar
lavoro altrove; la nascita, dell’associazione Living Wage,
che combatteva per il diritto al salario minimo di sussistenza per gli
americani (sic)… E questo in piena era Clinton vi ricordo.
Fu un
portavoce del sindacato AFL-CIO a Washington che mi raccontò quell’anno una
fatto risalente agli esordi dei clintonomics nella
metà degli anni novanta, e ripreso dal Wall Street
Journal. Il quotidiano scrisse che lo stato americano dell’Alabama si era sorprendentemente
aggiudicato la gara per ospitare un nuovo super impianto metalmeccanico della
tedesca Daimler-Benz. Al gigante germanico, l’Alabama
aveva offerto condizioni migliori di quelle ottenibili in
altri Paesi… del Terzo Mondo, fra cui un prezzo simbolico d’acquisto per il
terreno di 100 dollari (cento), esenzioni fiscali per centinaia di milioni di
dollari e mille altre agevolazioni di Stato. Ci si chiese (non sul WSJ) come
fosse possibile che la paga oraria degli operai statunitensi battesse quella
dei disoccupati messicani o rumeni, e proprio nel momento in cui Clinton aveva
appena declamato le virtù della sua programmazione economica.
Nel 1997, Bill Clinton (lo
ricordo, parliamo di colui che fu salutato come il
nuovo Lume, Obama prenda nota) arrivò persino a
vantarsi del bassissimo livello delle paghe operaie americane, e l’allora capo
della Federal Reserve,
l’arcinoto Alan Greenspan, ne diede una franca
spiegazione di fronte alla Commissione Bancaria del Senato. Secondo il mago
della Fed si trattava del risultato “dell’insicurezza del posto di lavoro”, che aveva impedito un’ondata di aumenti su scala
nazionale (per la debolezza contrattuale dei lavoratori).
Questa insicurezza era in larga
parte il risultato degli accordi di libero scambio
commerciale chiamati NAFTA, e stipulati fra Stati Uniti (promotori),
Canada e Messico sotto gli auspici di Bill Clinton nel 1993. Le ragioni furono
spiegate dall’economista Kate Bronfenbrenner della Cornell University, proprio in
una ricerca commissionatagli dal segretariato del NAFTA: lo studioso rivelò che
i sopraccitati accordi davano di fatto il potere agli
industriali americani di ricattare i loro lavoratori e i sindacati con la
minaccia del trasferimento in Messico delle produzioni. Lo studio
dell’economista rivelò che nell’era Clinton circa la metà degli scioperi veniva così impedita, ma lo rivelò al Messico e al Canada,
poiché il presidente Bill ne vietò la pubblicazione negli USA.
Vorrei a
questo punto riportarvi al successo di Obama e
all’euforia incontrollabile (ma soprattutto incontrollata nei fatti) che sta
spazzando mezzo Occidente. La dura e talvolta bieca realtà della presidenza
dell’ultimo Democratico ‘illuminato’ prima di questo, ci ricorda che una cosa
sono gli slanci retorici morali e progressisti ai fini elettorali e una cosa è
governare il Paese più arrogante e autoreferenziale del mondo, i cui abitanti
pretendono in larga parte (esclusi i derelitti) uno stile di vita che “non è
negoziabile” (Cheney, 2006). Il Big business è da
sempre l’anima, la struttura portante, di quella
società e per quanto Obama si sia sforzato di
rassicurarci, è al Big business che egli dovrà rispondere, non ci si illuda. Bill Clinton lo speva assai bene, fu infatti un
perfetto presidente per l’1% degli americani. Una ricerca Google nel Wall Street Journal ha prodotto una conferma chiara di
quanto dico. Un editoriale del 19 novembre 1993, appena un anno dopo la vittoria
presidenziale del Democratico, dice testualmente: “Su ogni
sorta di questione, Clinton e la sua amministrazione si sono trovati in armonia
con l’America dei grandi affari… La sua riforma sanitaria è tutta dalla parte delle
grosse aziende e delle grandi assicurazioni”. Obama
prenda nota.
Per concludere,
e non per essere impietoso, un accenno all’odierna crisi finanziaria, al
disastro cioè che ha minacciato di collassare il mondo e che ancora ci
minaccia. Il partito Democratico ne è stato una delle cause principali, come
documenta splendidamente Dominic Lawson
in un recente pezzo sul britannico The Independent.
Scrive l’inglese: “Quando vedo Barney Frank e
Christopher Dodd, i due presidenti Democratici delle
Commissioni Finanza della Camera e Bancaria del Senato, fare la parte degli
accusatori, bè, posso solo rimanere estasiato dalla
loro faccia tosta… Qual è la causa prima di questa catastrofe
finanziaria? I mutui elargiti troppo facilmente a
milioni di americani. E quali organizzazioni sono responsabili più di altre? FreddieMac e Fannie
Mae. E chi credete che abbia lavorato sodo per
bloccare ogni tentativo da parte di Bush per riportare quei due giganti del
credito sotto il controllo governativo? Fatevi avanti signori
Frank e Dodd!”. Lawson aggiunge che altri
democratici di rilievo, come Maxine Walters, dichiararono a quei tempi che “stiamo cercando di
riparare qualcosa che non è rotto. Non esiste una
crisi nella Freddie Mac e in
particolare nella Fannie Mae”.
Concludo.
Bisogna rimanere calmi, e usare lo strumento del raziocinio e dell’esperienza.
Abbiamo un presidente Democratico d’America, bene. Il passato ci insegna che
questo di per sé non significa nulla di meraviglioso,
anzi. Il presente ci suggerisce che la nuova svolta è, per ora, solo retorica
e disgiunta dalla realtà. La realtà è che abbiamo un presidente dell’America,
cioè un uomo il cui primo compito è di preservare la sua egemonia nel mondo e
il suo stile di vita, entrambi “non negoziabili”. Ciò ha sempre avuto, ha, e avrà costi orrendi, non v’è scampo, se non nella
fantasia degli ingenui. Felici per Obama, ma prudenza.