[Perchè ci odiano - Faccia a faccia con al quaida]

(versione stampabile)


Incontrare un membro di Al Qaida, possibilmente uno che conta nell’organizzazione, e intervistarlo è oggi il sogno nel cassetto


Incontrare un membro di Al Qaida, possibilmente uno che conta nell’organizzazione, e intervistarlo è oggi il sogno nel cassetto di molti reporter. E  nel cassetto rimane. Negli anni novanta, Robert Fisk del londinese Independent intervistò Osama Bin Laden quattro volte in poco tempo; Alan Cullison del Wall Street Journal fu autore di uno scoop che ebbe come protagonista il numero due di Al Qaida, Ayman Al Zawahiri, altri seguirono. Poi ci fu l’undici di settembre 2001 e tutto cambiò. Gli uomini di Bin Laden divennero i criminali più ricercati della storia contemporanea, e chiusero ogni rapporto con la stampa occidentale. Le rare interviste televisive a cosiddetti ‘operatives’ di Al Qaida che da allora ci è capitato di vedere sono quasi certamente delle ‘bufale’; si tratta di giovani arabi mostrati come sagome nere controluce, o di spalle e incappucciati, li si incontra in Bosnia o in Africa, si ode la loro voce e recitano le solite minacce contro di noi. Poco credibili. Perché? Perché a me è capitato solo pochi mesi fa di incontrare un uomo che è stato per quattordici anni ai vertici della Jihad islamica internazionale, la culla di Al Qaida, che sedeva con Bin Laden e Hasan Al-Turabi nei palazzi governativi di Khartoum in Sudan, che conosce come pochi l’anima stessa dell’organizzazione terroristica più pericolosa del mondo avendola vista nascere e crescere giorno dopo giorno fin dal 1981, e da questo incontro ho appreso che oggi nessuno in Al Qaida accetterebbe interviste come quelle sopraccitate.

 

Infatti, il mio incontro con costui è stato del tutto fortuito, un caso assolutamente bizzarro, intervistarlo però è stato impossibile. Nessuna immagine, di registrare la sua voce neppure a parlarne, il solo convincerlo a stare con me è costato il grande sforzo e la mediazione paziente di personaggi dalle credenziali impeccabili nel mondo dell’Islam estremo. Non so come si chiama, non posso dirvi come l’ho incontrato, quando, in quale paese, attraverso chi, nulla. Mi è stato detto chiaro, “non commettere errori in questo senso”. Ma mi ha parlato, a lungo, per sette ore, ed è bene che il lettore sappia fin da ora che l’autenticità di questo personaggio latitante mi sarà in seguito confermata da fonti statunitensi autorevoli, grazie al controllo incrociato di dati e di dettagli incontrovertibili.

 

Faccia a faccia con quest’uomo all’ultimo piano di un parcheggio abbandonato di una capitale mediorientale sono posseduto da una sola ossessiva domanda: e chi mi crederà al mio ritorno se di costui non porterò a casa un singolo frame di pellicola o un singolo bite di audio? La decisione di rischiare l’irragionevole è di quelle che un cronista non vorrebbe mai dover prendere, ma poi ti capita, e in quel caso la presi. Una mini telecamera digitale camuffata nel marsupio, con l’obiettivo e il microfono che fanno capolino, tutta la disinvoltura che mi riesce di avere, e così armato mi presento all’appuntamento con l’insider. La minicamera filma, entriamo in macchina, io dietro, lui davanti di fianco all’autista e traduttore, ma io non so se l’obiettivo ha colto alcunché del mio uomo, e allora fingo di avere caldo e mi slaccio il marsupio alzandolo brevemente ad altezza spalle per filmargli il volto di tre quarti; poi lo appoggio alla mia sinistra sul sedile, la cassetta gira.

 

Si parte, saranno sette ore di guida non stop per le strade della città, la nostra conversazione devastata, e non esagero, dalla paranoia di quest’uomo che parla velocissimo e continuamente si volta a fissarmi chiedendo all’autista sempre la stessa cosa: “L’italiano sta registrando?”, e lui mi gira la domanda e io prego che le mie espressioni e i miei ostentati “Macché! Dai, continuiamo per favore, stiamo perdendo tempo..” non tradiscano la mia paura. Paranoia, la sua, di essere seguito, di fermarsi all’angolo sbagliato, che quel tizio col furgone del pane sia uno dell’intelligence (in questa città, mi dicono, ci sono 30.000 informatori pagati dai ‘servizi’), che le telecamere dai tetti ci stiano inquadrando. Sette ore così hanno fruttato non più di mezz’ora di conversazione utile, il resto tutta tensione e parole al vento.

 

E’ comprensibile, questo insider non vuole tornare in carcere, la tortura ha lasciato su di lui segni evidenti e ne ha sfigurato il volto per sempre. Era il 1981, lui si trovava al Cairo, e poche ore dopo l’assassinio di Anwar Sadat per mano di membri dalla Jihad islamica egiziana si ritrovò sbattuto sul pavimento di una cella buia accanto ad altri estremisti religiosi, fra i quali, in tempi diversi, vi sarà anche un giovane medico che rispondeva al nome di Ayman Al Zawahiri. Fetore, grida terribili, ossa spezzate, testicoli arrostiti, due anni così, parte della più violenta repressione dell’integralismo religioso nella storia dell’Egitto, per poi essere scarcerato assieme ad altri sopravvissuti e insieme deportati oltre il confine col Sudan. Una banda di giovani esiliati con una cosa in comune: un’odio implacabile per il regime egiziano apostata e per ogni suo alleato, Israele, Stati Uniti ed Emirati Arabi in testa. Formano una grande famiglia che vaga senza sosta: prima Khartoum in Sudan, poi Sanaa nello Yemen, poi Peshawar e Islamabad in Pakistan, dove lui in particolare stringe rapporti con la leadership Talebana. L’insider mi conferma che fu in Pakistan, molti anni dopo, nel 1998, che avvenne ufficialmente la fusione fra due componenti dell’Islam belligerante che, prese singolarmente, erano relativamente pericolose, ma che messe a contatto si rivelarono micidiali: le finanze di Bin Laden e la manovalanza specialistica degli uomini di Al Zawahiri, in altre parole la ‘nuova’ Al Qaida.

 

“Osama veniva dalle gole dell’Afghanistan dove lui e i suoi mujahiddin avevano combattuto i sovietici; poi era stato in  Sudan a fare sostanzialmente affari, con le sue piantagioni e i suoi cantieri, insomma erano pieni di dollari ma erano dei grezzi che in una guerra urbana non sarebbero durati un giorno. Noi, e in particolare Ayman [Al Zawahiri, ndr] e i suoi, possedevamo le menti e l’esperienza della più evoluta Jihad mediorientale, quella egiziana. Fu siglato un patto.” Così, in parole semplici, il mio uomo racconta la nascita del ‘nemico pubblico numero uno’ della civiltà occidentale contemporanea. Mi fissa ancora, forse si sta chiedendo se lo prendo sul serio, anche perché una delle mie tecniche per distrarlo dall’ossessivo sospetto che lo stia registrando è di ribattere con altrettanta insistenza “Ma chi mi dice che lei non mi stia usando? Con chi verifico i fatti che mi racconta?”, e mi spingo volutamente fino all’insolenza: “Crede che basti sta scenetta in auto e la sua barba per darle credibilità?” L’uomo ora parla più lentamente: “La mia specializzazione (non mi sarà rivelata) era tale che nel 1995 in Sudan Osama Bin Laden e Al-Turabi fecero a gara per tenermi; Osama mi offrì un budget illimitato per addestrare i suoi uomini, ma rifiutai.”

 

La fine degli anni novanta segna infatti la sua rottura con Al Qaida, su cui non offre spiegazioni, e qui inizia la parte più interessante dei suoi racconti. Una cosa va però precisata, per il beneficio del lettore: nel corso di quelle concitate ore io bersagliai questo insider con le domande più ovvie, quelle da scoop per intenderci, e cioè dove fosse Bin Laden, quali fossero i suoi rapporti con la CIA o l’MI5, come gestisse le sue finanze, chi lo stesse proteggendo all’interno degli Stati del Golfo ecc., naturalmente senza ottenere la benché minima risposta. Questi silenzi furono una garanzia, poiché avessi ottenuto anche solo una singola spiegazione mi sarebbe crollato il mondo addosso: sarebbe stata la prova che costui era un millantatore. Chi veramente sa di Al Qaida, oggi non parla, e certamente non con un occidentale. Tuttavia il mio uomo ha voluto fornirmi uno scorcio prezioso e inaspettato nella mentalità del ricercato numero uno al mondo, e nel funzionamento della sua rete terroristica, uno scorcio dalle implicazioni di ampia portata. Ma ancora un dettaglio essenziale per la credibilità: nessuno, lungo tutta questa intricata vicenda, mi chiese denaro.

 

“Che senso ha l’undici di settembre? Cosa credevate di ottenere?” chiedo. Risponde: “So che avete pubblicato fiumi di carta sulle strategie di Bin Laden.. che spreco!. Voi non capite: io conosco tutti i gruppi di jihadi [combattenti, ndr] arabi, e vi assicuro che nessuno  fra loro, per quanto istruito, è in grado di capire come funziona il mondo occidentale, non hanno una singola persona capace di analisi politica moderna. Anche Bin Laden è così. Lui segue solamente il principio islamico del Tawakol alla cieca, e senza capirlo peraltro. E’ qui il problema.”

Tawakol? Mi spiega: “E’ un principio secondo cui se un credente agisce in maniera corretta, con un obiettivo giusto, con sufficiente potere per completare la sua azione e se infine si assume la piena responsabilità delle conseguenze, allora Dio gli concederà il successo. Ma Osama crede che Tawakol significhi che basta semplicemente agire nel nome di Dio per ottenere la sua intercessione a completare le cose. Perciò lui e i suoi uomini non pensano mai alle conseguenze di ciò che fanno, né riconoscono i limiti del loro potere. Hanno attaccato l’America così, alla cieca, convinti che l’intervento divino aggiusterà tutto. Non tengono conto della sproporzione delle forze in campo, né dei danni al mondo islamico, non pensano mai a nulla.”

 

E’, questo, un dettaglio di enorme importanza, che dipinge Al Qaida come un’organizzazione priva della consapevolezza dei propri limiti e dunque anche di quel senso di auto conservazione che è l’unica cosa che potrebbe limitarne l’audacia distruttiva: è un modello suicida, che trasmette poi ai suoi attentatori. E se l’orrendo attacco ai treni di Madrid fosse confermato come opera di Bin Laden, ricalcherebbe nella sua illogicità criminale quanto appena affermato dal mio insider: Al Qaida, come è noto, ritiene che nelle democrazie occidentali siano i cittadini i responsabili delle decisioni politiche, e per questo li considera tanto colpevoli quanto i politici. Ma nel caso della Spagna non avrebbe tenuto conto che un’ampia maggioranza dei civili spagnoli erano contrari all’occupazione dell’Iraq, e dunque estranei all’atto per cui li avrebbero puniti.

 

E’ ormai buio, una sosta per l’acqua e una focaccia per i due uomini, che scendono dall’auto; io cambio cassetta, ma al loro ritorno qualcosa è accaduto. L’insider non parla più con me, mi ignora del tutto, e discute a raffica con l’autista, io sono tagliato fuori. La traduzione di quel lungo segmento di cassetta, fatta solo al mio rientro, rivelerà dettagli importanti: l’uomo dapprima parla senza un filo logico, menziona un corriere di cui fidarsi, dice che oggi c’è aria pesante, che dobbiamo evitare la zona delle ambasciate perché ci sono controlli, poi sul nastro c’è un tratto di audio coperto dal rumore di una corriera che strombazza selvaggiamente, e quando la sua voce torna parla di un colloquio che ebbe con il “vice di Bin Laden”, un certo Al Rashid o Alì Rashid, non è chiaro dall’audio. Accadde in Sudan nel 1995, ma questo nome è a tutti gli effetti sconosciuto agli esperti di anti terrorismo, è un inedito per così dire, sconosciuto persino per l’autista, e infatti l’insider specifica “..Rashid, quello morto a Victoria..”, ma dove sia Victoria e cosa vi sia accaduto non lo dice. Si conferma inoltre una data successiva al 1995 per la nomina a vice di Al Zawahiri, da alcuni esperti ipotizzata assai prima. Poi l’audio si fa confuso, ecco quanto è possibile capire: “Io gli dicevo che Al-Turabi ci stava imbarazzando.. stava imbarazzando Osama.. Al Rashid mi disse: ‘Tanto ce ne andiamo da qui, attacchiamo l’America in Africa.’ [le stragi di Nairobi e Dar Es Salaam del 7/08/98,ndr].. Gli uomini erano stanchi di non far nulla.. lo hanno spinto [Osama, ndr] ad agire..  avevano trovato le loro lettere indirizzate alle famiglie dove si lamentavano dell’inazione..”.

 

L’auto riparte per stradine periferiche, i fari illuminano case di fango e mattoni, banchetti di dolciumi e tè, gente che vive in strada e polvere, tantissima; ma i due stanno in silenzio, e io mi chiedo che succede. Poi si fermano, l’insider scende ed entra in un palazzo fatiscente scavalcando un nugolo di bambini di strada. Chiedo all’autista: “Che succede? Ci sono problemi con me, per me?”. “No. Noi tutti problema.. security, no good. Tu aspetta” è la risposta. Torna, si riparte nel buio delle strade non illuminate ma dopo pochi minuti l’autista sterza all’improvviso e si infila in una sudicia officina alla nostra destra, passa veloce davanti a due meccanici e continua per quello che sembra uno stanzone stretto ma lunghissimo, semi buio, e si ferma coi fari accesi contro al muro che lo delimita. Vivo paura totale per la prima volta, sono convinto che ora mi perquisiranno e sarò scoperto. Ho la netta sensazione di aver fatto una vera sciocchezza, di aver giocato con una cosa più grande sia di me che della mia professione.... invece arriva uno dei meccanici con tre bicchieri di tè profumati, il mio uomo si gira e riprende a parlare. “Mohammed Atta [leader dei terroristi dell’11 settembre 2001, ndr] era istruito, ma anche lui agì sulla base di emozioni soverchianti, come fa Osama, senza pensare. Questa gente dice di lottare per l’Islam, ma l’Islam richiede saggezza, strategia e rispetto. Sappia che a Mohammmed Atta e ai suoi uomini era assolutamente proibito attaccare l’America: esiste infatti una Fatwa [editto sacro, ndr] emessa da Sayyed Abdel Aziz, ex capo della Jihad egiziana, che proibisce al combattente islamico di aggredire un Paese che lo abbia ospitato come residente. Oggi gli uomini di Osama risiedono sempre nel Paese che attaccheranno, e così violano la legge islamica, proprio loro; questo è indicativo dell’assoluta arbitrarietà in cui si muove Bin Laden.”

 

Gli chiedo chi sono i giovani che si arruolano in Al Qaida oggi, e se, come spesso si afferma in occidente, sono povertà e ignoranza le componenti principali del brodo di cultura di questi terroristi. “Lei usa la parola terroristi, lei non capisce, come tutti voi, voi non capite gli arabi” risponde, senza girarsi questa volta. Me lo aspettavo, ma non è questo il momento per una diatriba su ciò, rimango zitto. “Raramente la povertà o i traumi di guerra sono il terreno di crescita degli uomini di Al Qaida. Si tratta di arabi medi, e come tali poco sofisticati, gente che di fronte ai problemi pensa subito alle bombe. Questi arabi sono destrutturati fino all’estremo, poiché si sentono perduti in un mondo arabo perduto dove tutto ciò che gli sta sopra, dall’economia alle classi dirigenti, è di fatto in mano all’occidente, insomma non è più arabo. Vivono l’occidente e Israele come un cappio al collo che si va stringendo, e taluni si convincono che la fine di tutto ciò che concepiscono come propria identità sia vicina. Vanno nel panico, quindi tanto vale morire per l’Islam e guadagnarsi il Paradiso.” Queste parole hanno senso; è infatti noto che nessuno degli attentatori dell’11 di settembre proveniva dalla disperazione dei campi profughi palestinesi, né dall’affollata miseria delle baraccopoli di Islamabad o del Cairo. Si trattava di arabi di classe media, istruiti e con esperienze estere; in particolare la descrizione dell’insider calza assai bene il percorso di Mohammed Atta, studente di architettura ad Amburgo ma prima ancora ragazzino borghese del quartiere di Giza al Cairo. Atta tornò scioccato e furente da una visita al secolare mercato arabo di Aleppo in Siria, nel 1994, dove egli vide l’avanzare inarrestabile del cemento degli hotel americani e tedeschi per turisti come una metafora dello ‘stupro’ della tradizionale cultura islamica. A quel punto, mi verrà detto da chi al Cairo lo vide crescere, si infiammò in una disperata lotta contro l’occidente ‘invasore’.

 

Di nuovo un meccanico si affianca al finestrino di destra e sussurra una frase brevissima. Neppure il tempo di chiedere e si riparte, fine della tranquillità. Ancora uno stop and go estenuante, loro che parlano solo a tratti ma sempre concitati, le mie domande che si perdono, fra l’altro domande essenziali che non recupererò più. Unico vantaggio è che al buio e nel caos delle strade riesco a cambiare la terza cassetta senza incidenti. Ma avverto che la tensione nell’aria è cambiata, la voglia di parlarmi assai minore. Chiedo della Palestina, vorrei sapere quanto realmente essa stia a cuore a Bin Laden, che ne parla incessantemente nei suoi sermoni. Si tratta di comprendere fino a che punto l’eventuale risoluzione di quel conflitto possa arrestare l’ostilità di Al Qaida contro di noi. Provoco il mio interlocutore: “Si ha l’impressione che la questione israelo-palestinese sia perennemente agitata dai leader mediorientali ma a scopi del tutto interni. Bin Laden fa eccezione?”. “Non potete allineare Osama con Re ed Emiri corrotti” replica, “questi siedono nei bordelli del Cairo o di Parigi, Bin Laden vive da vent’anni fra montagne e grotte, credo che questo glielo si debba riconoscere.”. Mentre il  mio uomo parla della Palestina, noto che per la prima volta l’autista traduttore si anima, al punto da alzare la voce e da farmi temere che non stia poi traducendo le esatte parole. L’occupazione israeliana dei territori palestinesi, mi viene infatti detto, è una ferita insanabile e lacerante per tutti i fedeli, e lui non fa eccezione; e poi: “Tuttavia c’è una differenza sostanziale fra i palestinesi e i jihadi: per noi la disputa non è su una terra più o meno occupata dagli infedeli, ma sulla nostra identità religiosa, tradita in primo luogo dai nostri governanti ma avversata anche dall’occidente.” Si deduce da ciò che la frattura fra noi e loro va ben oltre la spinosa questione della nostra presenza fisica nei luoghi sacri all’Islam in Medioriente. Il suo racconto prosegue: “Nelle riunioni a Sanaa o a Khartoum, alla fine degli anni ottanta, si era tutti convinti che il nemico da battere fossero i regimi arabi e infatti li attaccammo, ma poi fu proprio Al Zawahiri a formulare la tesi del Nemico Lontano. Gli fu chiaro che se anche fossimo riusciti a cacciare l’apostasia di Emiri e Re corrotti, l’America sarebbe subito intervenuta per reinsediarli, come accadde con lo Shah in Iran. Capimmo allora che la lotta era solo contro l’America.”

 

Ora siamo fermi su un cavalcavia, vedo non lontano la sagoma e l’insegna di un noto hotel della città e chiedo ai due uomini se mi ci possono portare, ho bisogno di un bagno. Acconsentono. Lungo il tragitto oso la domanda forse più importante: “Ma Osama è vivo? Le sue apparizioni in video sono sempre più rare, perché? E quelle che vediamo, sono attuali o sono materiale riciclato?” L’insider ascolta la traduzione e sorride, è la prima volta che lo fa, si gira e dice: “Osama è vivo. Non rilascia dichiarazioni in video dopo l’incidente di Karachi [l’arresto di Ramzi bin al-Shibh, nel settembre 2002], quando capirono che i corrieri erano spiati dai servizi pakistani. Se Osama fosse morto io lo saprei, e sarei forse il primo ad annunciarlo.” Lascia volutamente cadere le parole, perché si gira e mi fissa. “E lei come lo saprebbe?” ribatto ovviamente: “Perché ogni singolo membro di Al Qaida ha l’ordine di fare una certa cosa, e contemporaneamente, dopo la sua morte. E questa cosa non è ancora accaduta.” “E cioè?” incalzo. Lui tace, l’auto si ferma davanti all’hotel e l’autista mi fa cenno di scendere. Lo faccio alla svelta con un pensiero fisso in testa: devo cambiare la quarta cassetta nel bagno perché al mio ritorno spero in una risposta alla mia ultima domanda, anche se sarà pressoché impossibile, lo so, ma spero comunque. Esco dal cubicolo della toilette, mi guardo intorno, non c’è nessuno, velocemente appoggio il marsupio sul piano del lavandino e faccio quello che devo fare. Ma è proprio mentre sto regolando la zip così da permettere al microfono la massima esposizione possibile che d’improvviso l’autista compare di spinta alle mie spalle e si blocca sulla punta dei piedi, quasi sbilanciandosi in avanti. Mi fissa e se ne va. Panico, di nuovo, non so cosa abbia visto, forse nulla, forse tutto, non so neppure se uscire da quel bagno o se tentare una fuga, ma poi penso che è tutto inutile: sanno dove alloggio, come mi chiamo, mi hanno controllato i documenti e la tessera stampa, conoscono tutta l’infinita catena di contatti che mi hanno portato a quell’incontro accidentale. Non ho scelta. Esco. L’auto è ancora lì, l’autista al suo posto, l’insider non c’è. Mai più visto né sentito, inutile chiedere, silenzio assoluto. Quella notte fui solo riaccompagnato all’albergo. Fine della storia.


Paolo Barnard


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