Ore due e venti del mattino, pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Accompagno una cara amica con un sospetto trauma cranico, nausea, disturbi alla vista. Il cartellone elettronico ci informa dei tempi di attesa dei pazienti a seconda della priorità accordata: codice rosso (casi in pericolo di vita) 0, attesa 0 minuti; codice giallo (casi con minaccia a una o più funzioni vitali) 0, attesa 0 minuti; codice verde (casi come il nostro) 34, attesa 276 minuti; codice bianco (quelli che potrebbero andare domani dal medico di base ma…) 5, attesa 310 minuti. Aspetti. Nell’attesa ti sei fatto un computo ragioneristico di chi c’è prima di te e chi dopo, chi è entrato, da quanto, quanto mancherà, e soprattutto speri che là dentro stiano lavorando, perché il silenzio è di tomba, movimenti non se ne scrutano e strisciante sale il sospetto che i medici se ne siano andati a fumare o a farsi il caffettino dell’alba. Sono le quattro meno dieci, poi le cinque e mezza, poi le sei e cinque, ma il bradipo ospedaliero non accenna a darti speranze. Siamo esausti.

 

Un rumore di passi alla nostra destra, ci giriamo e vediamo un signore attempato che cammina deciso alla testa di un drappello composto da un trio di donne a sostegno di un’anemica teenager in pigiama. L’uomo fa cenno al gruppo di fermarsi dalle nostre parti, avanza verso l’accoglienza pazienti e confabula con un’infermiera. Passano non più di cinque miuti e da un ascensore sbuca un medico che punta deciso verso la comitiva dei nuovi venuti. Le presentazioni sono rapide, il sanitario annuisce alle parole dell’uomo, e infine prendendosi sotto braccio la ragazzina se la porta dritta nell’ambulatorio di fronte a noi, totalmente incurante del sopruso nei confronti degli altri pazienti in attesa. La truppa dei privilegiati si siede e lui dice alle donne: “Tranquille, è un amico.”

Tutt’intorno la truppa rimanente, circa una quindicina di disperati, noi inclusi, guarda la scena in silenzio. I quindici “tre ore e tre quarti” contemplano senza fiatare i cinque ‘sei minuti’ prontamente serviti alla faccia degli altri. Mi alzo, ma la mia amica che mi conosce bene mi prende per la manica riportandomi al sedile rosso plasticato. Con un sorriso supplichevole mi dice: “È meglio che lasci perdere… lo sai come fanno. Dopo ti prendono male e ci chiamano per ultimi apposta. Tanto è sempre così”. Lei lo sa, si è fatta anni dentro e fuori dagli ospedali per un tumore all’utero, ne ha viste di cotte e di crude, e io pure nei miei dieci anni di volontariato fra gli ammalati terminali.

 

Infatti cose del genere, e assai peggio, accadono, pensate, proprio nel luogo della massima fragilità umana. In ospedale accade di essere perennemente ricattati dal potere, che se ne sta dall’altra parte di una barricata chiamata camici bianchi, schierati di fronte ai destinatari della loro funzione. Perché la malattia grave assomiglia più a un sequestro di persona che a un incidente biochimico: ti blocca ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu stia facendo, e senza rispettare nessuna delle tue esigenze ti porta via, in un luogo lontano da tutto ciò che hai sempre conosciuto come te stesso, il tuo ambiente e ogni tua sicurezza. E lì, chi se ne sta supino sotto le lenzuola, forse nel momento più vulnerabile di tutta la sua vita e in un contesto su cui non ha alcun controllo, ha il terrore che se protesterà a fronte di una qualsiasi angheria, ingiustizia, sopruso, o per difendere anche il più elementare dei suoi diritti, poi magari verrà preso in antipatia, e magari poi lo cureranno male o le infermiere saranno irritabili e gli parleranno ancora di meno. Il primario lo verrà a sapere, e l’ansia aumenta, poiché è lui che ti deve operare. Meglio tacere e ingoiare tutto. L’ho visto accadere all’infinito, cose anche orribili, e il più delle volte gli ammalati o i loro parenti mi hanno trattenuto, come la mia amica, rassegnati nel timore.

 

Allora. Il punto non è, credo, quanti siano i funzionari/lavoratori/responsabili che ancora in questo Paese svolgono il loro lavoro con etica, e non alla maniera sopra descritta. Siamo zeppi in Italia di istituzioni e movimenti preposti alla tutela dell’etica in diversi settori: il Tribunale del Malato, gli Uffici per la Relazione col Pubblico (URP), il Difensore Civico, la organizzazioni a tutela del consumatore, la magistratura, le ONLUS, le forze dell’ordine, i supervisori di ogni sorta di cui sempre più le aziende pubbliche e private fanno sfoggio, i Watchdog di derivazione anglosassone, per non parlare poi dello stesso dettato costituzionale. Il punto non è neppure se questi tipi di tutori bastino o meno, in realtà. E allora?

Quello che manca nel nostro Paese sono altre tutele, di ordine certamente più metafisico, le più centrali in assoluto. E cioè: 1) Una cultura nazionale dell’etica del lavoro, che significa precisamente la convinzione che qualunque cosa si faccia in seno alla collettività, dalla cosa più banale a quella più complessa, si ha il dovere di farla al meglio di sé sempre; 2) Sufficiente autostima nel singolo cittadino per sentirsi detentore di diritti inalienabili che nessuno può permettersi di calpestargli; 3) La capacità dei singoli di fare massa unita e solidale a fronte del sopruso subito da un qualunque membro della collettività. Tutto qui. In presenza di questi tre elementi, i sopraccitati tutori istituzionali diverrebbero secondari, se non addirittura superflui.

 

Parto dal primo punto con una scenetta di vita vissuta. Una delle tante inchieste che feci per la trasmissione Report della RAI 3 mi portò circa dieci anni fa a Monaco di Baviera, per scoprire il perché dell’egregio funzionamento delle poste pubbliche tedesche. Una delle riprese richiedeva un mio stand up di fronte alla telecamera proprio mentre un postino qualsiasi prelevava da una buca delle lettere il suo contenuto. Scortato nientemeno che dal direttore generale, direttore marketing, direttore ufficio stampa e direttore relazioni con l’estero delle poste bavaresi, ci recammo semplicemente presso una di queste buchette cittadine una decina di minuti prima del passaggio previsto del postino con furgone. Nulla era stato concordato, ne sono certo, poiché la mia richiesta di fare quella ripresa era stata formulata lì per lì, all’ultimo minuto, proprio per evitare che potessero barare sulla puntualità del loro uomo. Sfortunatamente, all’arrivo (puntuale) di costui la batteria della mia telecamera mi piantò in asso, per cui chiesi se per cortesia potevano pregare il postino di ripetere la scenetta della sosta, apertura buca ecc. Il direttore generale in persona si accostò al suo dipendente che già stava risalendo sul furgone, lo salutò con cortesia e con voce suadente gli disse due parole. Questo manco lo guardò in faccia, gli rispose a raffica una lunga frase a me incomprensibile, chiuse la portiera e ripartì spedito. Il direttore generale, un omone immenso e occhialuto, rimase come un sacco di patate in mezzo alla strada, poi mi si avvicinò e tradendo non poco imbarazzo mi disse la seguente cosa: “Ci perdoni, ma il postino mi ha detto che se perde 10 minuti per la televisione straniera, il suo collega allo scarico ne perderà 15, quello allo smistamento ne perderà 20, e alla fine la sua posta non sarà in orario domattina.” Poi concluse: “Sono spiacente, non ho nessun potere per ostacolare questa logica”. E a me, che ancora non potevo credere a quello che sentivo e vedevo, non sfuggì l’annuire serio dei tre manager ritti al nostro fianco.

A parte il fatto che una simile scena in Italia sarebbe pura fiction, quello che lascia attoniti e ammirati di quell’evento è quando interiorizzati fossero in quel pubblico dipendente il senso della sua responsabilità nei confronti della collettività dei cittadini e la conseguente necessità di compiere al meglio il suo lavoro. Armato di tali pilastri civici, il Davide-postino non ebbe alcun timore di sfidare (vittorioso) il Golia-direttore generale.

 

Ora, il motivo per cui la ‘razza italica’ sia cresciuta in maggioranza sprovvista di una cultura dell’etica del lavoro, è dibattuto da sempre. Non è questo il contesto per una disamina del fenomeno, ma suggerisco a chi vi si stesse cimentando di considerare che gran parte di questo male non deriva dalla mancanza di senso del dovere, bensì dal suo opposto: a noi come popolo manca il senso dei nostri diritti innanzi tutto, e di conseguenza il senso del dovere. La differenza non è accademica, è sostanziale.

 

Più complessa e insidiosa è la carenza degli altri due punti, ovvero l’autostima necessaria ad esigere inderogabilmente il rispetto di un diritto e lo spirito di corpo nel lottare nel caso in cui esso (proprio o di altri) venga violato. Esiste qui un collegamento stretto con la strutturazione che ci siamo dati del nostro crescerci e del nostro vivere. Nel crescerci, un ruolo di assoluta preminenza è assegnato alla scuola, dove vige la regola per cui entro l’età di circa otto anni l’indipendenza di pensiero e l’autostima del bambino devono essere interamente distrutti. A nulla sono valsi decenni di articolata critica a questo scempio da parte di diverse correnti pedagogiche antagoniste; la scuola, sicario in ciò del sistema Stato che non può permettersi di fronteggiare una cittadinanza libera pensatrice e coraggiosamente attiva, continua imperterrita in tale funzione.

Certamente anche la famiglia, con l’estrema povertà di mezzi relazionali che distingue la genitorialità media (dove trovano preminenza il ricatto, la violenza e l’umiliazione come ordinari strumenti educativi), non è estranea a ciò, ma le infinite variabili dei suoi modelli e dei suoi percorsi esistenziali non ci permette di quantificare il danno che essa arreca all’autostima del bambino con la stessa scientificità dell’osservazione, verifica e replicabilità del fenomeno che sono possibili nel setting scolastico.

 

Se dunque la persona media già si affaccia alla vita adulta con un handicap nell’autostima di tali proporzioni, di certo non le è di giovamento l’impatto con la Cultura della Visibilità propria del mondo occidentale. Essere visibili da noi è tutto, se non lo si è semplicemente non si esiste. La Cultura della Visibilità, che trova le sue origini nei primi anni ’20, si è espansa in epoca contemporanea a tal punto da divenire uno dei fenomeni sociali più rilevanti del pianeta, e che in Occidente in particolare ha contagiato tutti, senza eccezione. Essa si può spiegare in parole semplici come quel tipo di esistenza dove si sancisce che solo colui, fra la cosiddetta massa, che riesce a essere notato, cioè visibile, cioè Vip, è un vincente, ed è di conseguenza un modello. I Vip sono polimorfi: possono essere tali, oltre ai tradizionali titolari di immense ricchezze (lo sono da secoli) e oltre ai classici miti dello spettacolo e dello sport, anche i politici, i magistrati, i missionari, i comici, i giornalisti, gli alternativi, i violenti, gli intellettuali, insomma chiunque faccia parlare di sé in un modo o in un altro, per meriti o demeriti, basta che sia un volto noto. Sono tantissimi, ossessivamente presenti nelle nostre vite, hanno invaso la cultura popolare ovunque. E poiché sono modelli, milioni di persone li ammirano, li sovrastimano e delegano loro la formazione stessa di idee ed opinioni. Infatti loro contano, sanno, possono. E più le persone comuni ipertrofizzano i visibili, più ipotrofizzano se stesse. Più attribuiscono loro grandi doti, meno credono nelle proprie doti. Il messaggio del lui grande-io piccolo – dal primo della classe in tenera età ai modelli dell’eccellente/campione/potente/colto/vincente della vita adulta - è ossessivamente ripetuto fino al parossismo nella Cultura della Visibilità occidentale, fino cioè a svuotare la persona non visibile di qualunque fiducia nella propria capacità in ogni campo.

Ora, l’idea stessa che individui così conciati abbiano poi la fiducia necessaria per credere che la coesione nell’agire di un gruppo di loro pari possa ottenere qualcosa nel fronteggiare le caste dei visibili arroganti detentori del potere, è priva di senso della realtà. Infatti l’espressione della sfiducia collettiva prende regolarmente la forma del pronunciamento “ma tanto a cosa serve?”.

 

Alcune conclusioni. L’Italia necessita, di conseguenza, di altre due cose. Primo, un intervento di storica portata, una vera e propria rivoluzione culturale, a livello scolastico, dove l’istituzione scuola si prefigga come prima ragion d’essere non più l’insegnamento di una lista di materie, ma l’istillare nell’individuo il senso della sacralità, unicità e dignità del suo valore in quanto essere umano di per sé, indipendentemente da qualsiasi altra cosa, a prescindere dalla sua provenienza, cultura, o capacità individuale. Qualsiasi valutazione basata sulla sua abilità nel macinare nozioni e nel ripresentarle ben confezionate deve essere secondaria, e gli insegnanti coltiveranno negli alunni il principio secondo cui mai un fallimento in queste secondarie valutazioni va tradotto in una ferita al valore personale, ovvero in perdita di autostima, che è perdita di amore per sé stessi.

 

Le priorità del sapere nella ‘nuova’ scuola dovranno porre al primo posto il valore dell’esistenza collettiva come unica possibilità razionale di sopravvivenza e come imprescindibile atto di intelligenza oltre che di buon senso. In parole semplici: insegnare che il massimo impegno per l’altro è un investimento che ti esce dalla porta per rientrarti con gli interessi dalla finestra, e questo conviene a tutti (da qui il senso civico e l’etica del lavoro). Dunque essa sarà la prima materia d’insegnamento come importanza, a scalare poi verso le altre materie che tuttavia dovranno essere riformulate a seconda delle reali priorità del bambino, dell’adolescente e dell’adulto contemporanei (qui la letteratura da cui attingere è vastissima).

Secondo, va contrastata pubblicamente e pubblicamente sfidata la Cultura della Visibilità, semplicemente proclamando aberrazione sociale l’idea stessa che qualcuno possa essere considerato più importante di qualcun altro. Nessuna deroga su ciò. Le persone vanno invitate a riappropriarsi di quelle enormi porzioni di affettività che esse riversano sui visibili Vip, per tornare a donarle a se stesse, per divenire i Guru di se stessi, i leader di se stessi, i ‘potenti’ di se stessi, e per sentirsi infine in cima alla piramide dei propri diritti, ben saldi. Il tutore dell’etica è questo, è una persona che siede in cima a una piramide di diritti propri e dei suoi simili che sente inalienabili, e sui quali e per i quali è disposto a mettersi in gioco sempre e fino in fondo. Di conseguenza egli sente i suoi doveri come altrettanto imprescindibili.

 

Paolo Barnard