Il business della diffamazione
di Giovanna Corrias Lucente *, Micromega , 29-06-2007
Sulla testa di ogni giornalista pende oggi la spada di Damocle di una querela per diffamazione. Lui – e il suo giornale – rischia la bancarotta, chi querela assolutamente niente. Anche se la denuncia si rivela infondata, infatti, è quasi impossibile ottenere un risarcimento. Risultato: i giornalisti scrivono sempre di meno e sempre più politically correct, le querele per diffamazione non si contano e i danni morali liquidati raggiungono cifre sbalorditive. Con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa.
1.
“Ho pensato al mio ultimo romanzo, quello che avrebbe dovuto essere il primo.
La prima versione è del gennaio 1940, l’ultima del marzo 1999 e nel frattempo
ho prodotto una mezza dozzina di stesure diverse … Il mio compito durato
cinquantanove anni è finito. C’è stato il nostro crimine – di Lola, di Marshall
e il mio -, il crimine che a partire dalla seconda versione, ho cercato di
descrivere. Ho ritenuto mio dovere non nascondere nulla – i nomi, i luoghi, le
circostanze esatte, – ho riferito tutto come se si trattasse di un archivio
storico. In termini legali, tuttavia, così mi è stato detto da vari editori nel
corso degli anni, le mie memorie non potranno mai essere pubblicate mentre sono
ancora vivi i complici del mio crimine. Si è liberi solo di diffamare se stessi
e i morti. Dalla fine degli anni quaranta, i coniugi Marshall si sono dati un
gran da fare a difendere in Tribunale il loro buon nome con una ferocia che non
badava a spese. Non avrebbero difficoltà a mandare in rovina una casa editrice
data la loro disponibilità finanziaria. Mi è stato dato il più ovvio dei
suggerimenti: sposta, cambia, trasforma … Spostati fin dove è necessario pianta
le tende pochi centimetri più in là, fuori dalla portata della legge. Solo che
nessuno conosce le stanze precise finché non è stata emessa una sentenza” (I.
Mc Ewan, “Espiazione”, Einaudi, 2002, pag. 378).
La
conclusione del romanzo esprime con desolato sentimento il rapporto irrisolto
tra scrittore (o giornalista) ed il reato di diffamazione, evidenziandone i
policromi risvolti: l’imprevedibilità del giudizio sul reato (che in fondo
risiede nella mente del Giudice), l’inutilità di accorgimenti prudenti, il
temuto danno finanziario. Tre aspetti ampiamente sondati che hanno assunto
dimensioni talvolta parossistiche nella più recente produzione
giurisprudenziale.
La
connotazione illecita della diffamazione, come lesione dell’onore e della
reputazione dell’individuo, è una costante negli ordinamenti e nella storia;
con qualche variazione. I sistemi di common law la valutano illecito civile,
gli ordinamenti continentali la qualificano a titolo penale.
In
Italia, il ricorso alla giustizia ha assunto negli ultimi decenni dimensioni
imponenti, ignote al passato, quando il codice cavalleresco disciplinava
l’autodifesa, in uso al punto che il legislatore rese la sfida a duello reato.
Si
trapassa da una stagione in cui i processi sono ridotti, per giungere alle
attuali dimensioni del fenomeno di azioni civili o penali largamente intraprese
da tutti i ceti. Si contano procedimenti per brevi trafiletti di cronaca
giudiziaria, che interessano persone al più sconosciute, come imponenti azioni
intraprese da personaggi di rilievo nella vita finanziaria, economica e
politica.
Un
progressivo e lento movimento ha reso così la diffamazione un fenomeno di
rilievo economico non indifferente: sta all’offeso decidere se rivolgersi
soltanto al Giudice civile per ottenere esclusivamente il risarcimento del
presunto danno, ovvero proporre anche querela per chiedere contemporaneamente
la condanna alla pena ed i danni. Nessuno più, comunque, mostra indifferenza
all’aspetto finanziario dell’azione.
2.
Nella scorsa legislatura sono stati presentati, da tutte le parti politiche,
progetti di riforma del reato di diffamazione, poi abbandonati. Segno di un
comune malessere od insoddisfazione, anche se le direttrici dei diversi
progetti, spesso erano contrapposte (dalla depenalizzazione, alla omessa
rettifica come condizione per proporre querela, alla fissazione di un tetto
massimo per il risarcimento del danno morale, al potere del Giudice di
infliggere anche sanzioni ora disciplinari - come la sospensione dell’albo -
nei confronti del giornalista).
Le
questioni, a mio parere, presentano natura sia normativa che interpretativa;
vanno in altri termini, risolte con pochi interventi di legge e,
prevalentemente, con una diversa coscienza dei giudizi correlati alla
diffamazione.
Al
di là dell’apparente banalità del testo della norma incriminatrice - “chiunque
offende l’onore e la reputazione altrui” - l’interpretazione del fatto è
fortemente connotata da elementi valutativi e, con qualche lata analogia con il
comune senso del pudore, deve tenere conto delle modifiche intervenute nel
tessuto sociale e nel lessico corrente.
L’onere
incombe sul Giudice ed è particolarmente gravoso, si tratta di interpretare e
valutare il linguaggio, stabilire se l’offesa sussista o meno. E’ vero che le
componenti del reato di natura normativa e sociale (tali i concetti di onore e
reputazione) sono ritenute gli organi respiratori del sistema penale, in quanto
ne consentono l’adeguamento al comune sentire. Ciò comporta, tuttavia,
l’inserzione di un circolo virtuoso tra realtà e giudizio. Una presa di
coscienza alla quale i Tribunali sono talvolta pervenuti, esemplare la disputa
sul valore offensivo del termine “omosessuale”.
Vi
sono espressioni che indubbiamente – e nessuno lo negherebbe – hanno il
potenziale di offendere un individuo, così l’attribuzione di un atto di
corruzione, di un furto, di un illecito disciplinare. Tali accuse possono
condensarsi in un semplice attributo generico: “corrotto”, o manifestarsi nella
dettagliata descrizione dell’attività attribuita, nell’indicazione di un procedimento
in corso per il reato ed assumere, dunque, veste diversa.
V’è
da riflettere, però, se con l’involuzione volgare assunta dal linguaggio comune
gli insulti più banali (cretino, deficiente, mascalzone, pennivendolo,
tagliaborse) abbiano conservato valenza offensiva. Talmente correnti ed in uso
da aver perso un reale potenziale offensivo. La maleducazione è divenuta
corrente e tollerata, si è trasferita dalla strada, nelle aule parlamentari,
nei dibattiti televisivi, più che sulla stampa (data l’asprezza del dibattito
politico, che come segnalato da un recente studio è ormai esclusivamente
dedicato alle opinioni, con indifferenza assoluta ai fatti sottostanti);
all’improvviso muta forma e può essere considerato delitto.
Forse
sarebbe opportuno accettare lo statu quo e degradare, in via interpretativa,
tale forma del linguaggio corrente, senza necessità di spendere le risorse del
processo penale o civile per sanzionare soltanto il degrado comune dell’uso
linguistico e dell’educazione.
Per
giustificare espressioni consimili si pretendono ora metafore eleganti, forme
ragionate di critica che soltanto con maggiore finezza raggiungono il medesimo
risultato. Appare un infingimento: l’insulto più banale deve essere mascherato,
edulcorato nell’apparenza attraverso il ricorso a perifrasi che non mutano
l’effetto.
In
questo modo il riconoscimento del reato diventa un giudizio sull’abilità
retorica, premiata.
Va,
tuttavia, rammentato che, non poche volte, la Corte di Cassazione ha
giustificato quelle che denomina espressioni “aspre” in ambito politico,
proprio riferendosi all’indifferenza sopravvenuta per i toni assunti dal
dibattito e dalle polemiche correnti. Non è intervenuta, però, escludendo il
reato, ma sostenendo soltanto che la critica politica poteva tradursi anche in
insulti, seppure i confini del tollerabile restano vaghi ed indefiniti,
dipendenti dalla sensibilità del giudicante.
Prendere
atto del corrente uso linguistico significherebbe escludere l’offesa e, dunque,
il reato senza ricorrere alla causa di giustificazione. Travasare in altri
termini nelle aule l’uso incorso, il diritto vivente, per quanto maleducato
possa apparire, ma non più degno della sanzione penale.
Il
passaggio dall’impermeabilizzazione alla non punibilità sarebbe determinato dal
travaso nel giudizio della prassi invalsa. Il novero degli insulti che si
risolvono in attributi semplici è, però, variegato comprende gli epiteti
infantili, e la sintesi di gravi accuse.
A
mio parere, per assumere valenza illecita, i semplici attributi devono
presentare nel testo un significato tecnico preciso: Killer, ad esempio è
certamente un’offesa se allude all’autore di un omicidio, ma se è usata in
luogo dell’ammesso termine giustizialista perde potenziale offensivo.
“Corrotto” è termine offensivo se è accusa, in senso, tecnico del
corrispondente reato, non quando alluda all’atteggiamento esasperatamente
compromissorio del privato. “Lager”, secondo una sentenza, se tradotto
lessicalmente (“campo o deposito”, “luogo di raccolta”) può definire in forma lecita
un ospizio.
Esclusa
ogni discussione, non v’è dubbio che dove si intacchi la sfera dell’onestà e
del lecito agire la diffamazione sussista, ma dove l’espressione, sia
insignificante e si risolva in una critica, pur con toni aggressivi, vada
esclusa.
Inutile
introdurre espedienti normativi e richiedere, per questi ultimi casi, che la
rettifica paralizzi l’azione; si raggiungerebbe un effetto paradosso: la
ripetizione dell’insulto (“non è un cretino”) seppur in forma
opportunisticamente negativa. Effetto sgradito alla vittima.
3.
Diverso il discorso da sviluppare per l’attribuzione d’illeciti, di reati di
comportamenti riprovevoli che in effetti sono idonei a lambire e, talvolta, a
travolgere la fama di un individuo, soprattutto se ripetutamente rivolti sulla
stampa o sulla televisione.
Qui
entrano in gioco le cause di giustificazione, le più comuni e ricorrenti
l’esercizio del diritto di cronaca e di critica. Sono istituti che operano su
un reato esistente (la diffamazione) escludendone la punibilità. Una notevole
imprevedibilità delle decisioni si annida anche in questo ambito del giudizio
sul reato.
Cronaca
e critica sono scriminanti di creazione giurisprudenziale, frutto di una
singolare armonia e concordanza tra dottrina e giurisprudenza – con rari contrasti
– stravagante rispetto all’ordinamento italiano che sconta un’ineludibile
distonia tra i protagonisti dell’interpretazione normativa.
La
cronaca e i suoi limiti (la triade assurta a dogma: verità del fatto, interesse
pubblico e continenza); la verità intesa in senso assoluto, storico ed
obiettivo (quasi che Popper non sia mai esistito), l’ammissione che l’errore
sulla verità del fatto escluda il dolo della diffamazione e la contemporanea
abrogazione implicita di parte della norma – per questa sola materia – che
prevede l’efficacia dell’errore colposo se il reato non è punito a titolo
colposo (e così non è per la diffamazione); l’adeguamento della nozione di
verità in particolari materie (cronaca giudiziaria e parlamentare richiedono la
sola corrispondenza della notizia all’atto, espunta la pretesa di verità
assoluta); la non punibilità dell’intervistatore equidistante; la conquistata
autonomia della critica (l’opinione non può essere valutata secondo il
parametro verità/falsità) sono tesi dottrinarie ed enunciati di sentenze
assurte a regulae juris.
Il
processo di elaborazione è stato lungo ed involuzioni sono talora emerse; per
raggiungere maturità sono occorsi, dall’entrata in vigore della Costituzione,
più di quarant’anni, con un movimento ondivago non estraneo agli altalenanti
rapporti tra stampa e magistratura.
Anche
in questo settore margini valutativi, talvolta di insondabile ampiezza, restano
al Giudice nella prassi applicativa. La stessa notizia può essere giustificata
a Torino e non a Roma, in nome del medesimo principio di diritto.
Inutile
o irrealistico imporre correttivi per legge; l’imprevedibilità appartiene alla
fase giudicante. In epoche di conflittualità sociale la diffamazione diviene
uno strumento per fare politica: perseguire i giornalisti avversi, aggredire
gli avversari.
Il
Giudice è allora chiamato a dirimere: il nucleo del dibattito politico, la
legittimità di un candidato, le capacità di un pubblico ufficiale a rivestire
l’incarico e, per contrappunto, la professionalità del cronista o del critico.
Per
giustificare l’offesa occorrono prove certe, documenti e rari testimoni. Il
giornalismo d’inchiesta è in via di scomparsa. Quali le cause? Il degrado dei
giornalisti od i rischi processuali che affronta chi percorre territori non ancora
sondati dai Giudici. Ricordo che in una grande città, alla fine degli anni
ottanta, una redazione denunciava con articoli dettagliati i politici
imperanti. Ahimé, la prova che allora potevano fornire non assumeva mai la
dimensione dell’assoluta ed obiettiva verità richieste dalla giurisprudenza. In
primo grado ne sortirono alcune condanne. Nel frattempo, fiorì tangentopoli e
gli articoli trovarono riscontro nelle indagini della magistratura che
disvelarono la realtà dei fenomeni illeciti denunciati. Le prove così ottenute
consentirono le assoluzioni in appello o gli annullamenti in Cassazione.
Si
associano oggi due fenomeni: da un canto una maggiore fallibilità dei
giornalisti rispetto ad un tempo, dovuta alla necessità imposte dai giornali,
trasformati in imprese editoriali, di produrre centinaia di pagine nell’arco di
una giornata ed allora tempi ristretti impediscono controlli accurati; d’altro
canto una propensione querelomane.
La
suscettibilità dell’individuo, la rilevanza dell’immagine nell’era moderna
conducono anche il colpevole a proporre azione, magari per una virgola od una
svista neutra in un articolo altrimenti ineccepibile.
L’azione,
uno strumento prima cautamente usato oggi è di abuso comune. E’ sufficiente
comparare il numero delle querele proposte a quello delle assoluzioni che si
attestano circa sul sessanta - settanta per cento.
Altro
fenomeno correlato alla formazione giurisprudenziale ed all’assetto della
diffamazione è che dall’assoluzione non scaturiscono procedimenti per calunnia
in danno dell’improvvido querelante. E’ sufficiente, infatti, comporre una
valida querela che affermi l’esistenza di un’offesa e tacere se il fatto sia
vero o da ritenersi tale, perchè non si proceda a carico dell’incolpante per
calunnia.
Decrescono
così i rischi di una reazione giudiziaria forte alla querela infondata.
Diminuiscono i deterrenti e risulta minorata la difesa preventiva dalle azioni
contro stampa e televisione.
4.
Un aspetto cruciale per la valenza socio-politica della diffamazione consiste
nella liquidazione del danno da reato. Il fenomeno ha subito un’estensione
crescente nelle dimensioni, sino a mettere in pericolo, in taluni casi, la
stessa libertà di stampa. Anche qui la transizione è lenta, dall’epoca in cui
il danno assumeva parte pressoché inconsistente della decisione richiesta,
(veniva domandata una lira simbolica, a sottolineare l’interesse esclusivamente
morale dell’offeso ed il disprezzo per una conversione in denaro della propria
immagine), all’attuale mercificazione dell’onore. Si assiste ad un’inversione
di tendenza; azioni per migliaia o milioni di euro e risarcimenti per centinaia
di migliaia di euro; raro ormai che le cifre liquidate si attestino sotto la
decina.
L’habitus
di fissare risarcimenti di entità notevole si è andato espandendo, sino a
rappresentare ormai una consolidata prassi giudiziaria.
La
problematica connessa è alquanto delicata. Insito nelle decisioni sul danno è
un notevole margine discrezionale, se non di arbitrio, del Giudice, correlato
ad una peculiarità del reato: tutela l’onore e la diffamazione, beni
immateriali ed è raro che gli attori dei processi civili o le parti civili in
quelli penali dimostrino che dal reato è conseguito casualmente un danno di
natura patrimoniale. Quando vi riescono, l’opera di commisurazione del danno
risarcibile, attribuita al Giudice, è semplice e consiste in un calcolo
pressoché matematico essendovi corrispondenza fenomenica tra la perdita subita
od il mancato guadagno e la somma da risarcire. Ma si tratta di casi rari. Statisticamente
la massima parte (se non esclusiva) dei danni da diffamazione appartengono alla
classe dei c.d. danni morali. Una categoria di danno che non trova un diretto
riflesso nella realtà economica e che può essere quantificata – con una formula
invalsa nelle sentenze – in via equitativa. Tentativi di fissare criteri
nell’uso del potere discrezionale di commisurare il danno non hanno sortito
effetti apprezzabili per la certezza del diritto e il principio di
determinatezza.
Va
rimarcato, infatti, che le regole individuate (gravità dell’offesa, diffusione
dello stampato) coincidono con quelle delineate dall’art. 12 della legge sulla
stampa per provvedere alla quantificazione di un istituto speciale, la
riparazione pecuniaria, valido soltanto per la diffamazione.
Insomma,
già il legislatore del 1948 si era posto il problema della remunerazione del
danno da diffamazione ed aveva apprestato una forma risarcitoria eccezionale,
dettando i criteri per la quantificazione. Scarse le riflessioni su questo
istituto; mi pare tuttavia dubbia la sua necessità; non si intende, infatti,
per qual ragione la persona offesa dalla diffamazione dovrebbe godere di un
privilegio non concesso alle vittime di più gravi reati, come omicidio o
stragi. Se la preoccupazione del legislatore era collegata alla difficoltà di
compensare il danno subito attraverso le ordinarie forme risarcitorie, occorre
constatare che tale esigenza è stata ormai superata in sede giudiziaria
attraverso il ricorso al danno morale.
Paradossalmente
si assiste oggi alla proliferazione delle forme di risarcimento, ma soprattutto
al ricorso ai medesimi criteri per liquidare somme a diverso titolo
(riparazione e danno morale). Una duplicazione decisamente superflua, un’enfasi
inutile.
Nella
cornice delineatasi, il risarcimento del danno da diffamazione ha assunto
proporzioni che talora risultano patologiche, sia per l’imprevedibilità
dell’ammontare, che per la sua (talvolta) ingente entità.
Da
sfondo alla prassi invalsa, un’esasperata tutela del bene dell’onore e forse
l’implicita convinzione che i media costituiscano una potere forte, dotato di
infinite disponibilità economiche.
L’impostazione
politico criminale non corrisponde alla realtà: esistono testate o reti
televisive di modesta portata, dotate di mezzi ridotti, cui talvolta si
contrappongono (in veste di diffamati) potentati finanziari, industriali o
politici. Sicché il rapporto fra poteri, cui pare riferirsi la giurisprudenza,
è ribaltato, con l’ulteriore problematica: che in questi casi la sola difesa
nel processo subisce le conseguenze della sperequazione nelle forze economiche
antagoniste. Eppure, è raro rinvenire simili constatazioni nelle sentenze che
per lo più rifuggono dalla valutazione della importanza della testata all’atto
della liquidazione del danno.
La
valutazione delle rispettive capacità economiche (per le testate, peraltro,
collegate alla loro diffusione) dovrebbe costituire un parametro valutativo, un
corollario obbligato nella valutazione del danno. Appare, infatti, ovvio che
l’offesa rivolta ad una potente industria, ad una multinazionale abbia
un’idoneità minima ad incidere sulla sua produzione di reddito, mentre, per
contro, la condanna ad un risarcimento ingente potrebbe potenzialmente
distruggere un editore.
Eppure
dalla commisurazione del danno è assente ogni considerazione del potere
(economico o politico) della vittima, pure rilevante, perché corrisponde alla
superiore o minore intangibilità della sua reputazione.
Negli
Stati Uniti, dove per la diffamazione è prevista la condanna ai c.d. punitive
damages (risarcimenti meramente sanzionatori e destituiti di alcun collegamento
con l’effetto fenomenico della diffamazione) si era avanzato il dubbio che tale
forma di danni fosse potenzialmente contraria alla libertà di stampa, potendo
condurre al fallimento ed alla chiusura di una rete televisiva o di una testata
giornalistica. Non v’è dubbio che l’istituto del danno morale, preordinato
(nell’impostazione originaria) a risarcire la sofferenza patita dalla vittima,
abbia, in materia di diffamazione, subito una mutazione genetica e, per le
ragioni enunciate, sia andato progressivamente acquistando la natura di pena
accessoria (automatica conseguenza) della condanna per diffamazione. Con
un’aggravante: che non è prevista, come per tutte le sanzioni criminali, la
soglia massima del suo ammontare. Elevata indeterminatezza avvolge, perciò, la
materia con grave pregiudizio per la certezza del diritto e la stessa libertà
di stampa.
Un
effetto deterrente si collega, infatti, ai risarcimenti milionari, una sorta di
preoccupazione a pubblicare notizie che sarebbero assistite dal diritto di
cronaca o di critica, per il timore delle conseguenze giudiziarie, con
conseguente e necessitato impoverimento dell’informazione.
L’attuale
situazione si mostra ancor più sperequata per due profili: il Tribunale può
condannare al danno, totale o parziale (provvisionale), con decisioni
immediatamente esecutive. In altri termini, il condannato deve pagare
all’emissione della sentenza di primo grado. Tuttavia, se in seguito il
condannato viene assolto, non è prevista una forma rapida di restituzione di
quanto ha versato (attraverso la procedura del decreto ingiuntivo), ma per
riottenere le somme corrisposte, è costretto ad intraprendere un’azione civile
che può rivelarsi estenuante.
Nel
codice Rocco era previsto, poi, un istituto riparatorio per l’imputato assolto:
la facoltà del Giudice penale di condannare al risarcimento dei danni la parte
civile che avesse intrapreso e coltivato l’azione. L’attuale codice fa salvo
questo potere soltanto per due formule assolutorie: il fatto non sussiste (la
diffamazione non c’è) o non aver commesso il fatto (il processo si è rivolto
nei confronti di un imputato estraneo). Sennonché la massima parte delle
assoluzioni per il reato di diffamazione termina con la formula “perché il
fatto non costituisce reato”, ossia per esercizio del diritto di cronaca o di
critica. Diviene perciò impossibile ottenere in sede penale un risarcimento
all’imputato ingiustamente coinvolto nel processo. 5.
Si profilano, dunque, inammissibili discrasie che impediscono di confrontarsi
con un sistema organico. In parte dipendono dalla prassi giurisprudenziale
invalsa e per altra parte dalla normativa vigente.
Entrambe
potrebbero essere modificate introducendo quantomeno un tetto massimo per il
risarcimento del danno morale (come previsto in alcuni progetti presentati
nella scorsa legislatura), in modo da fornire al Giudice un orientamento certo
(il massimo andrebbe liquidato soltanto per le offese più gravi) ed alle
testate una doverosa certezza dei rischi economici cui si espongono, d’altro
canto abrogando la norma che prevede la riparazione pecuniaria (ormai
trasformato il danno morale in un suo duplicato); infine reintroducendo la
facoltà di richiedere ed ottenere in sede penale il risarcimento dei danni
prodotti dall’azione rivelatasi infondata.
Infine
il legislatore postbellico si era reso conto della rilevanza della materia ed
aveva imposto che fosse la triade del Tribunale collegiale a decidere su
qualsiasi reato commesso con il mezzo della stampa, foss’anche la
contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti (oblabile allora con il
pagamento di 250.000 lire) altrimenti di competenza pretoriale.
Con
la riforma del Giudice unico, il tema è stato certamente sottovalutato e la
cognizione dei reati di stampa è stata relegata al Giudice monocratico. I
problemi connessi al reato (e non solo a questo, ma anche alla responsabilità
professionale) meritano invece un Collegio giudicante che possa, con la
dialettica nella camera di consiglio, ponderare ed equilibrare le contrapposte
esigenze e la complessità del giudizio.
Reintrodurre
la competenza funzionale del Collegio giudicante garantirebbe la costruzione
dialogica della sentenza, produrrebbe maggiore uniformità giurisprudenziale ed
una più equilibrata commisurazione dei contrapposti interessi.
*
L'autrice è Avvocato penalista, docente di Diritto penale comparato presso
la Link Campus University of Maltha a Roma e socia di LeG.
AVV. GIOVANNA CORRIAS LUCENTE ( www.studiocorriaslucente.it ) |
Esercita la professione dal
1980, Cassazionista dal 1997. Ha maturato vaste esperienze, giudiziarie e di
consulenza nel diritto penale dell'economia, tributario, societario
fallimentare, bancario, industriale dell'ambiente e dell'urbanistica, reati
contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, l'incolumità pubblica,
frodi comunitarie, reati informatici, reati con il mezzo della stampa ed
altri mezzi di comunicazione di massa, delle telecomunicazioni, reati a
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